Quel Finale di partita napoletano
Visione dolente e grottesca della fine del mondo, dell’agghiacciante solitudine dell’uomo moderno, dell’inutilità del linguaggio, Finale di partita di Samuel Beckett, è anche fine di una messinscena e fine di una partita a scacchi. Come prevede il titolo del celebre testo, la pièce si dovrebbe svolgere su una scacchiera. Nei moltissimi allestimenti che ci sono stati alcuni registi si sono attenuti alla lettera alle indicazioni date dall’autore, altri, com’è giusto che sia, hanno realizzato differenti scenografie.
L’importante è la coerenza con l’idea che si vuole perseguire. Ogni volta, infatti, che si allestisce questo testo la scommessa per il regista e per l’attore principale è quella di restituirne un’immagine fedele e, al tempo stesso, innovativa e personale. Risultato arduo da ottenere dal momento che le partiture teatrali di Beckett sono così definite e chiuse, così compiutamente predisposte in ogni particolare, da rendere apparentemente impossibile una buona messa in scena che sia qualcosa di diverso da una “esecuzione”.
La rappresentazione necessita di un coerente ritmo interno come detonatore che faccia esplodere i dettagli messi in campo. Nell’allestimento del catalano Lluis Pasqual per il Napoli Teatro Festival Italia, ci sono delle incongruenze. O, almeno, non ci è chiaro come si conciliano due aspetti visivi e quindi concettuali. Sul palcoscenico c’è della terra nera sparsa ai bordi della parete (sabbia lavica del Vesuvio lì ammucchiata come ad arginare la distruttiva colata avvenuta?), e il muro della casa-rifugio è un materiale ondulato di plastica tipico di un cantiere di lavoro su cui sono state ritagliate le due finestre e una porta previste.
A conferma di questa ambientazione è anche la tuta da operaio che indossa Clov, che però contrasta con la vestaglia rossastra e di paillettes di Hamm, costume che starebbe a rappresentare quello di un attore qui anche con residui di trucco sul viso. E che siamo all’interno di una recita lo dice il testo stesso in alcune battute dei due personaggi; siamo cioè dentro un gioco tutto vero e tutto falso – quello della finzione teatrale – che ci conduce dentro l’inesplicabile, ma coinvolgente mistero di una condanna a una reciproca schiavitù senza sviluppo di due personaggi-simbolo dell’umanità, costretti a ripetere le stesse scene e gli stessi dialoghi. E sono Hamm, ovvero l’arrogante, odioso e tiranno protagonista, cieco e inamovibile sulla sua poltrona a rotelle, e Clov, al contrario in continua agitazione a cui tocca assisterlo fino alla fine pur manifestando continuamente la decisione di andarsene.
Sono il padrone e il servo, a cui fanno da irriverente coro i genitori di Hamm, due tronchi umani sprofondati come rifiuti nei bidoni della spazzatura, superstiti e testimoni, insieme, della fine del mondo. Tutti vivono nell’inferno in questa casa isolata, ma fuori c’è, dice il testo, l’altro inferno, il mondo distrutto e senza più anima viva. Pasqual però non riesce a suggerirci pienamente l’idea di quell’altro orrore, certamente peggiore di quello interno, né la disperata, straziante comicità di non poche situazioni e battute, nonostante l’interprete sia il napoletano Lello Arena, che però è sempre uguale a se stesso quando recita. Gli fa da spalla il pur bravo e appropriato Stefano Miglio, e, nel ruolo dei vecchi, gli ottimi Gigi De Luca e Angela Pagano.
Al Teatro Nuovo per il Napoli Teatro Festival Italia. In tournée nella prossima stagione.